LA CORTE D'APPELLO Sciogliendo la riserva assunta all'udienza del 12 novembre 2008 ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. 132/2007 R.G. avente ad oggetto: contratto a termine-conversione promossa da Attardi Concetta rappresentata e difesa dall'avv. Lorenzo Infantino, contro Poste Italiane S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Gaetano Granozzi, appellata. F a t t o Con ricorso depositato davanti al Tribunale di Gela in data 16 luglio 2004 la signora Attardi Concetta esponeva quanto segue: di essere stata assunta dalle Poste Italiane S.p.A. presso la Direzione Filiale di Caltanissetta come «portalettere» con contratto a tempo determinato per il periodo dal 1º febbraio 2002 al 30 aprile 2002; che l'assunzione era stata effettuata «ai sensi della vigente normativa per esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un piu' funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all'introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti e servizi, nonche' all'attuazione delle previsioni di cui agli Accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002»; che nel citato contratto di lavoro era stato previsto che «le clausole contrattuali sulla durata del contratto a termine e sul regime del periodo di prova sono concordemente ritenute essenziali ai sensi dell'art. 1456». Chiedeva, pertanto, dichiararsi la illegittimita' dell'apposizione del termine e la conversione del contratto come contratto ab initio a tempo indeterminato. La domanda veniva rigettata dal giudice di primo grado con sentenza n. 87/2006 dell'8 marzo-14 marzo 2006 sul presupposto che il contratto si fosse risolto per mutuo consenso, atteso il lasso di tempo trascorso tra la data di cessazione del rapporto e la proposizione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. Proponeva appello la difesa della ricorrente rilevando come la decisione in ordine all'avvenuto scioglimento del contratto per mutuo consenso si fosse basata sul mero dato del tempo trascorso tra l'estinzione del contratto e la proposizione del ricorso; sottolineava come la mera inerzia di circa 18 mesi (la prima contestazione avvenne con lettera di messa in mora del 3 ottobre 2003) non sarebbe di per se' idonea a fare presumere che la lavoratrice avesse voluto definitivamente estinguere il rapporto di lavoro a termine. Inoltre, la suddetta lettera e le successive lettere di costituzione in mora dimostrerebbero in modo inequivoco la sussistenza della volonta' di prosecuzione del rapporto. Lamentava pertanto la illegittimita' del contratto, pacificamente sottoposto alla disciplina del d.lgs. n. 368/2001, sotto due profili: quanto al primo, rilevava come nell'accordo sindacale del 23 ottobre 2001, in materia di mobilita' interaziendale, non fosse contenuta la specificazione delle esigenze tecnico, produttive ed organizzative giustificanti l'apposizione del termine, il che renderebbe automaticamente illegittimi i contratti a termini stipulati in forza di tali accordi. Sotto altro profilo, denunciava la violazione dell'art. 1, comma 2, d.lgs. n. 368/2001, in base al quale «l'apposizione del termine e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto, nel quale sono indicate le ragioni di cui al comma 1». In materia di contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi del d.lgs. n. 368/2001 interveniva la sentenza della Corte di cassazione 21 maggio 2008, n. 12895, la quale, proprio in materia di contratti a termine stipulati con le Poste Italiane S.p.A. stabiliva che «l'ingiustificatezza del termine apposto al primo isolato contratto di lavoro tra le parti determina la nullita' del termine medesimo e l'effetto legale di conservazione del contratto a tempo indeterminato pur nel silenzio della legge in proposito». In particolare, la Corte di cassazione richiamava la sentenza della Corte costituzionale n. 210 del 1992, confermata, nella sostanza, anche dalla successiva sentenza della Corte cost. n. 283/2005, per affermare la inderogabilita' tipica delle norme poste a tutela dei lavoratori ed il carattere tassativo ed eccezionale delle ipotesi di nullita'. Successivamente, in pendenza del presente giudizio di appello ed in presenza di decisioni di merito ancora contrastanti sulla questione (c.f.r. Tribunale di Roma 27 maggio 2008, n. 9491 est. Coluccio), nel supplemento ordinario n. 196 alla Gazzetta Ufficiale del 21 agosto 2008, n. 195 e' stata pubblicata la legge 6 agosto 2008, n. 133, di conversione con modificazioni del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, il cui articolo 21 ha introdotto dopo l'art. 4 del d.lgs. n. 368/2001, l'art. 4-bis che testualmente dispone (Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine) «Con rferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2, 4, il datore di lavoro e' tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 mensilita' ed un massimo di 6 mensilita' della retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». Tale norma e' intervenuta soltanto su alcune cause di illegittimita' del contratto di lavoro a termine (nessun riferimento e' contenuto ad esempio alla ipotesi dell'art. 5, d.lgs. n. 368/2001 - prosecuzione del rapporto dopo la scadenza del termine e successione di una pluralita' di contratti a termine), modificandone esclusivamente il regime sanzionatorio. Il contenuto della suddetta norma appare prima facie singolare in quanto: comporta un rinvio, da un punto di vista sostanziale, alla disciplina del licenziamento, nonostante la giurisprudenza abbia sempre univocamente affermato che nel caso in esame manca qualsiasi atto di licenziamento; la norma cui sostanzialmente si rinvia e' quella della c.d. tutela obbligatoria, con esclusione di qualsiasi effetto reintegratorio, in contrasto con l'orientamento della Corte di cassazione sopra citato; la sanzione ha un mero carattere economico, prevedendo la corresponsione di un indennizzo. E' evidente, pertanto, che, essendo il suddetto giudizio in corso alla data di entrata in vigore della citata disposizione, questa Corte, in luogo della richiesta conversione dovrebbe riconoscere alla lavoratrice soltanto l'indennizzo nei termini sopra evidenziati, per cui la pronuncia sulla costituzionalita' della disposizione e' rilevante ai fini del giudizio. Va altresi' osservato che tale disposizione non assume carattere interpretativo, sia per il futuro sia anche retroattivamente, di una determinata disposizione, ipotesi rispetto alla quale la Corte costituzionale ha gia' espresso un giudizio di ragionevolezza (c.f.r., in ordine a tale ipotesi, Corte cost. n. 234/2007 del 26 giugno 2007 in ordine alla notoria questione dei lavoratori ATA), soprattutto in ragione della superiore esigenza di contenimento della spesa pubblica. La norma in questione, invece, e' una tipica norma transitoria che distingue tra chi, alla data del 6 agosto 2008, abbia instaurato un giudizio non ancora definito e chi, invece, non lo abbia ancora proposto o abbia avuto gia' riconosciuto il diritto con sentenza passata in giudicato, facendo dipendere unicamente da tale dato temporale, senza alcuna ulteriore e ragionevole giustificazione, la possibilita' di riconoscere o meno la conversione del contratto di lavoro a termine illegittimo e/o nullo in contratto di lavoro subordinato. Ritiene pertanto la Corte che non sia manifestamente infondata la questione di costituzionalita' di tale disposizione in relazione agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione Italiana in quanto: a) in relazione all'art. 3 della Cost. introduce una irragionevole disparita' di trattamento tra i lavoratori in relazione, pur in presenza di identiche situazioni giuridiche, al solo dato temporale della data di proposizione del ricorso: e' sufficiente evidenziare che se la ricorrente, invece di azionare tempestivamente la domanda nel 2004, avesse proposto il ricorso dopo l'entrata in vigore della norma transitoria, continuando, di fatto ad inviare alla parte datoriale regolari atti di costituzione in mora, avrebbe certamente potuto chiedere la conversione del contratto di lavoro in contratto a tempo indeterminato, mentre, nel caso concreto, alla luce della normativa sopravvenuta in corso di causa, avrebbe soltanto diritto all'indennizzo ivi previsto; b) in relazione all'art. 24 della Costituzione, costituisce ormai ius receptum il principio secondo cui la sovrana volonta' del legislatore di emanare una norma incontri comunque una serie di limiti, da tempo individuati dalla Corte costituzionale, attinenti alla salvaguardia, oltre che delle norme costituzionali, di fondamentali valori di civilta' giuridica, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio di ragionevolezza, che impone il divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento, la tutela dell'affidamento legittimamente sorto negli interessati in ordine ad un determinato assetto di diritto, stravolto nel corso di causa, con un'indebita limitazione del diritto di difesa per coloro che hanno giudizi in corso (c.f.r. Corte cost. n. 311/2005). Sul punto, in particolare, la Corte costituzionale ha piu' volte affermato che non e' legittimo che la legge introduca disposizioni intenzionalmente dirette ad incidere su fattispecie sub iudice (c.f.r. Corte cost. nn. 397/1994, 6/1994, 429/1993), ed il fatto che la citata disposizione valga solo per i giudizi in corso, senza alcuna efficacia per il futuro. Inoltre la norma crea rilevanti problemi soprattutto nei confronti dei lavoratori che abbiano ottenuto la ricostituzione del rapporto sulla base della sentenza di primo grado (provvisoriamente esecutiva) e che, per effetto della riforma, si troverebbero ad essere estromessi dal posto di lavoro e a dovere restituire il risarcimento ottenuto, come pure in relazione ai procedimenti davanti alla Corte di cassazione (certamente numerosi attesa la serialita' delle controversie) gia' decisi ma in attesa di pubblicazione della sentenza; c) in relazione all'art. 117, primo comma, della Cost. (secondo cui la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) in relazione all'art. 6 della CEDU del 4 novembre 1950, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Questa Corte non ignora che la Corte di giustizia europea nella c.d. sentenza Mangold (22 novembre 2005 - C. 144/2004), ha ritenuto che la direttiva sul contratto di lavoro a termine non vieta una reformatio in pejus della protezione offerta ai lavoratori, per cui, sotto tale profilo, non si ravvisa nessuna violazione. Tuttavia, la norma della CEDU sopra richiamata impone all'amministrazione della giustizia di uno stato di non influire con norme ad hoc nella risoluzione di controversie in corso, stabilendo il principio secondo cui non possono essere modificati per factum principis i diritti sostanziali dedotti in giudizio. La non manifesta infondatezza della questione si evince, infine, anche dalle argomentazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale 13 ottobre 2000, n. 415, in quanto, nel caso in esame, mancano tutti gli elementi in base ai quali la Corte ritenne conforme alla Costituzione l'art. 9 del decreto legislativo 1º ottobre 1996, n. 510 che dichiarava la legittimita' delle assunzioni di personale con contratto a termine effettuate dall'Ente Poste Italiane sino al 30 giugno 1997.